Cineforum “IL CINEMA, INGANNO DEI SENSI”
Cineforum “IL CINEMA, INGANNO DEI SENSI”
4/12/24 - 8/1/25 - 5/2/25 - 5/3/25
04/12/2024 - ore 21:00, 08/01/2025 - ore 21:00, 05/02/2025 - ore 21:00, 05/03/2025 - ore 21:00
Cinema Astra - via Rismondo 21 MO
Ingresso libero
Le proiezioni si terranno al Cinema Astra di Modena, ore 21.00
Il cinema, per sua stessa natura, è l’arte della falsificazione della realtà. Esso ci mente e ci inganna incessantemente e inevitabilmente offrendoci, attraverso la riproposizione di un tempo e di uno spazio ricreati secondo l’immaginazione del regista demiurgo, l’illusione suprema che la realtà fantasmatica raffigurata sullo schermo corrisponda alla realtà tout court. I film della rassegna ci svelano come la riproduzione di un evento tecnicamente ottenuta attraverso la sua registrazione meccanica visiva o uditiva possa ingannare i nostri sensi, conducendoci a un’interpretazione illusoria della realtà, fino al punto da dubitare della sua conoscibilità, del suo significato e della sua stessa esistenza.
Il curatore della rassegna, Marco Barozzi, ha scelto quattro titoli.
Il cineasta russo Lev Vladimirovic Kulesov negli anni venti del ‘900 dirigeva una scuola di cinema i cui allievi (Pudovkin e Ejzenstejn tra tutti) avrebbero fatto la storia. Un giorno Kulesov, assieme a loro, condusse il seguente esperimento: filmò il famoso attore russo Ivan Mozzuchin in primo piano in diverse inquadrature non particolarmente espressive. Poi intercalò queste inquadrature con quelle di altro materiale d’archivio, generando diverse combinazioni. Nella prima dopo il primo piano dell’attore veniva mostrato un piatto di minestra fumante in modo che sembrasse che l’attore lo stesse guardando; nella seconda l’immagine del piatto venne sostituita da quella di una donna composta in una bara; nella terza venne utilizzata la ripresa di una bambina che stava giocando. Successivamente le diverse combinazioni furono mostrate a distinti gruppi di spettatori. Il pubblico ebbe la sensazione che di fronte alla minestra il viso di Mozzuchin esprimesse appetito, di fronte alla bara esprimesse tristezza mentre, rispetto all’inquadratura della bambina, manifestasse gioia e serenità. In realtà in tutti e tre i casi l’espressione era la stessa.
Questa rivelazione, che costituisce la base di una delle più importanti teorie sul montaggio della storia del cinema, venne chiamata “effetto Kulesov”. Esso ci dice che nella creazione della realtà cinematografica il regista ha bisogno sì di determinati accorgimenti di tecnica di ripresa e di accostamento delle immagini, ma anche della cooperazione dello spettatore. Infatti fu successivamente dimostrato dagli psicologi della Gestalt che il pubblico proietta le proprie emozioni sul viso dell’attore basandosi su canoni precostituiti ed inconsci di rappresentazione delle espressioni, sicché le successive inquadrature della zuppa, della bara e della bambina portano a metterle in relazione con i corrispondenti sentimenti di appetito, tristezza e felicità. L’effetto percettivo prodotto dalla successione di immagini è rapido, inconscio e quasi automatico: ordinando le inquadrature di una scena in una particolare sequenza, la pellicola può quindi indurre reazioni codificate nella maggior parte degli spettatori. La concatenazione delle immagini ottenuta col montaggio cinematografico può dare agli spettatori l’illusione che porzioni di spazio, riprese in luoghi e tempi diversi, costituiscano le componenti di una scena unitaria e continua. Può quindi portarli a formulare inconsciamente ipotesi immediate sul significato narrativo degli eventi alterandone di fatto la percezione, creando in altre parole una realtà alternativa.
Il montaggio è l’arte di manipolare sia lo spazio, sia soprattutto il tempo. Prima dell’invenzione della cinepresa non vi era possibilità nel mondo dell’arte di manipolare il flusso temporale con rallentamenti o inversioni. La tecnologia del cinema è stata capace di cambiare l’entropia di un oggetto o di un soggetto e donargli così la capacità di inversione, cioè di tornare indietro nel tempo, di riavvolgere il nastro di ciò che gli è accaduto. Si sono potuti così sperimentare nuovi metodi di narrazione visiva che non rispettano la cronologia degli eventi. Il montaggio serve proprio a questo, ossia a unire differenti filoni spaziali e temporali a patto che il loro insieme sia organico e coerente e, in altre parole, che il tutto costituisca una narrazione.
Il cinema, per sua stessa natura, è l’arte della falsificazione della realtà. Esso ci mente e ci inganna incessantemente e inevitabilmente offrendoci, attraverso la riproposizione di un tempo e di uno spazio ricreati secondo l’immaginazione del regista demiurgo, l’illusione suprema che la realtà fantasmatica raffigurata sullo schermo corrisponda alla realtà tout court. Noi abbiamo accesso a quella che consideriamo la realtà del mondo attraverso i nostri sensi. Il significato di ciò che percepiamo attraverso la vista o l’udito, o un odore che avvertiamo nell’ambiente, è tuttavia ben lungi dal darci una rappresentazione oggettiva di ciò che ci circonda. Tale rappresentazione è mediata per ciascuno di noi dalla propria personalità e dal proprio vissuto, dalle connessioni mentali che siamo in grado di mettere in campo in relazione alla stimolazione sensoriale che riceviamo. Se immagini, rumori, eventi ci si presentano in una determinata successione o correlazione spazio-temporale tendiamo ad eseguire automaticamente dei collegamenti tra loro. La semplice vista di un dolce (la famosa madeleine), unitamente al suo odore e al suo sapore, fu sufficiente a Proust per catapultarlo nel passato e quindi per alterare il significato della sua realtà percettiva rispetto a quella di chiunque altro sperimentasse la medesima percezione sensoriale. Alcune opere cinematografiche costituiscono una riflessione filosofica sul modo in cui la percezione della realtà mediata dai sensi o la sua riproduzione meccanicamente ottenuta possa condurre ad un’interpretazione del tutto personale, soggettiva, alterata o addirittura impossibile del percepito. Per alcuni registi (Christopher Nolan su tutti) tale singolarità legata alla percezione pare costituire addirittura la summa dell’intero corpus cinematografico.
Attraverso la sua registrazione visiva o uditiva (specie se ottenuta tramite strumentazione audio o video ad alta tecnologia) la riproduzione meccanica della realtà può erroneamente indurre a ritenere di poterla catturare e controllare e quindi comprendere, attraverso una duplicazione fedele e scientificamente oggettiva, che annulli la soggettività e la relatività di quanto percepito attraverso i sensi. I film che presentiamo in questa rassegna cinematografica intitolata Il cinema, inganno dei sensi mostrano quanto ciò sia aleatorio e come la ricerca spasmodica della verità (che altro non è che un’interpretazione mediata della realtà) possa essere tradita dagli strumenti ritenuti in grado di amplificare la percezione.
L’idea del ciclo è venuta di getto dopo la rivisitazione e lo studio di quello che probabilmente è il capostipite di questo filone cinematografico: Blow up (1966), di Michelangelo Antonioni, che il Consorzio Creativo ha presentato nell’aprile scorso al Circolo Fotografico modenese Ghirlandina Photography. Blow up rappresenta una riflessione sull’enigma della visione e sul nostro rapporto con la realtà fortemente mediato dall’immagine. Nel film la percezione del mondo reale pare arrivare al protagonista non al momento in cui l’ha direttamente esperita, ma solo dopo, attraverso una fotografia, cioè una riproduzione meccanica della realtà. Ma ciò che il regista pare volerci dimostrare è che non solo la realtà, ma anche la sua riproduzione è un’illusione perché ad ogni ingrandimento fotografico (appunto blow up), ad ogni dettaglio a cui dovrebbe corrispondere il massimo dell’oggettività, il particolare diventa indefinito e si apre uno scenario di segni imprevisti a cui solo la costruzione soggettiva può attribuire un significato. L’indagine ossessiva del protagonista non lo porterà ad una soluzione definitiva, ma solo all’accettazione sostanziale della incapacità di trovare il senso, la ragione delle cose e degli accadimenti. Perciò l’assunto iniziale per cui la realtà esiste se è possibile ricostruire oggettivamente i fatti viene a cadere ed essa si rivela infine inconoscibile.
I film che il Cineforum del Consorzio Creativo propone quest’anno sono quindi tutti incentrati sull’illusione che la riproduzione della realtà possa offrire le chiavi per una sua comprensione.
La conversazione (Francis Ford Coppola, 1974) offre un’inquietante esplorazione di come il suono influenzi il modo in cui la realtà viene interpretata. Il protagonista, Harry Caul (Gene Hackman), grande esperto di intercettazioni audio, si crea una sua realtà soggettiva interpretando gli estratti audio delle conversazioni di una coppia, registrate su mandato del marito di lei. La sua realtà soggettiva è però governata dai suoi sensi di colpa, dalla sua ossessione paranoide per la tutela della propria sfera privata e dall’ambivalenza verso il suo lavoro di esperto di sorveglianza. In sostanza Harry è un essere anaffettivo e incapace di stabilire legami veri con chi gli sta intorno. Tutto ciò lo porterà a ignorare la realtà oggettiva, perché la realtà che Harry crea per se stesso è quella in cui sceglierà di credere. Lo shock finale, legato al disvelamento degli eventi nel loro reale significato, porterà al deragliamento definitivo della mente del protagonista.
La Conversazione è fortemente debitore del Blow up di Antonioni, così come Blow out (Brian De Palma, 1981) risulterà esserlo di entrambi. De Palma in questo film unisce sia la componente uditiva che quella visiva della ricostruzione di un evento (immagine in movimento e suono: cinema quindi), volendo rappresentare come la complementarietà dei due mezzi possa condurre il più oggettivamente possibile ad una interpretazione corretta dei fatti reali. Tutta la produzione cinematografica di De Palma è d’altronde fondata sulla ossessiva attenzione nei confronti dello sguardo, dello spiare (il suo è stato definito come “un cinema dello sguardo sotto un profilo strettamente voyeuristico”), mentre questa volta usa il suono come indispensabile strumento di interpretazione dell’immagine. Ebbene, nel caso di Blow out tutto il potente armamentario tecnologico messo in campo dal protagonista Jack Terry (John Travolta) si rivela utile sì per svelare ciò che si cela sotto le apparenze di un “banale” incidente automobilistico, ma la scoperta della verità fattuale porterà in luce una realtà molto diversa da quanto immaginato: un maledetto imbroglio di sesso e politica, di ricatti e di sangue. E proprio a causa della scoperta di questa verità Jack fallirà nel suo scopo di proteggere se stesso e la sua amica, in quanto è proprio la verità che, lungi dal ristabilire lo stato di realtà apparentemente armonico dell’inizio, porterà a precipitare il protagonista in una condizione di angoscia post-traumatica e caos soggettivo ormai assurta a dimensione esistenziale.
Ne I misteri del giardino di Compton House (Peter Greenaway, 1982) il metodo di riproduzione della realtà considerato è il disegno anche se, nonostante la vicenda sia ambientata nel 1694, comparirà più volte uno strumento ottico come mezzo ausiliario di cui il protagonista disegnatore Mr. Neville (Anthony Higgins) si serve per fissare la sua veduta sulla carta. Un mezzo ottico atto quindi a incastonare, incorniciare come una fotografia una porzione di realtà. Anche questo film suggerisce che le rappresentazioni dell’esistente costituiscono elementi ambivalenti, che scontano lo scarto tra occhio e intelletto. Mr. Neville, che è certo di rappresentare il mondo accuratamente, tenta di ingabbiare il reale in una griglia e pretende di dirigere gli eventi in cui è coinvolto, ma finisce per subirne gli imprevisti. Egli non tiene in nessun conto che il tentativo di costringere ciò che vediamo in un rigido schema taglia fatalmente fuori dal quadro le implicazioni passionali, gli odi e gli intrighi. Sarà dunque punito perché non ha considerato chi, nella vicenda, tiene il coltello sociale dalla parte del manico. Ancora una volta, come in Blow up, ci troviamo quindi di fronte al tema del rapporto tra la realtà, di per sé ambigua, e la sua rappresentazione che, lungi dal consentirne la decifrazione, la rende ancora più complessa e impenetrabile.
Memento (Christopher Nolan, 2000) si concentra sulla dimensione dei ricordi e della memoria, che più di altre facoltà dimostra quanto il tempo possa essere soggettivo e relativo nella percezione di ciascuno. Come sostiene Nadia Fusini, la memoria può essere considerata il più immateriale nella scala dei sensi del corpo assegnati alla cattura del reale, una sorta di somma non algebrica degli effetti delle nostre percezioni sensoriali che dà origine a prodotti fortemente mediati dalla soggettività individuale. Il protagonista, Leonard Shelby (Guy Pearce), in seguito a un trauma ha perso la memoria anterograda, cioè la capacità di immagazzinare nuovi ricordi; il che significa che ogni manciata di minuti va incontro ad una nuova amnesia riguardo ai fatti immediatamente precedenti. Sua moglie è stata assassinata (questo è l’ultimo ricordo stabile che gli rimane) ed egli è alla spasmodica ricerca del colpevole per vendicarsi; anzi, tale ricerca è diventata l’unico scopo della sua vita ormai devastata. Dal momento che non riesce a fissare i ricordi e quindi le acquisizioni della sua indagine, si serve di una memoria esterna, artefatta e frammentaria: fotografie, frasi incise sulla pelle come tatuaggi, appunti a margine delle istantanee, mappe, targhe, vestiti, oggetti concreti. L’universo di informazioni che riesce a crearsi in questo modo significa però tutto e niente e i dati su cui può contare si rivelano parziali, equivoci, rivisitabili, interpretabili da qualsiasi punto di vista. Leonard si costruisce una vita nuova ad ogni amnesia. Si fa quindi forte della sua patologia per crearsi un mondo parallelo nel quale trovare uno scopo alla propria esistenza. In altre parole si crea una realtà soggettiva e incondivisibile, basata sulla sua incapacità di elaborare il lutto, perché come non riesce a ricordare ciò che gli accade, egli non può al contempo dimenticare il trauma originario. La continuità che noi diamo al mondo, istante per istante, attraverso le nostre percezioni che ci aiutano a ricordare, non è più possibile per Leonard perché il suo mondo esiste solo nella sua mente, per cui egli arriverà a falsificare consciamente la realtà per poi dimenticare di averlo fatto. La sua realtà sarà quella di un loop temporale, un nastro di Moebius da cui non potrà più uscire.
Tutti e quattro i film che compongono la rassegna mettono in atto una narrazione meta-cinematografica (quella di un cinema che riflette su se stesso). Tutti i protagonisti di questi film rappresentano in modo più o meno palese uno sdoppiamento della figura del regista. Come altrettanti Directors, essi tentano di porre ordine e logica nel caos del mondo attraverso il potere assoluto della propria privilegiata prospettiva. Mr. Neville compone addirittura le scene da disegnare come predisponesse un set, mentre Leonard Shelby altera consciamente (sapendo che se ne dimenticherà) i dati della realtà per crearne una nuova, alternativa, più confortevole per sé. I registi operano processi di decostruzione e ricostruzione della realtà secondo la propria immaginazione, disseminando le loro opere di momenti in cui la percezione dello spettatore viene chiamata in causa, esaltata e talvolta confusa: chi guarda l’opera ne deve ricostruire gli eventi, connetterli in modo logico e sensato, a volte traendo facili conclusioni e altre scommettendo sulle proprie inferenze, basandosi su un qualsiasi dettaglio, sonoro o visivo, meritevole di attenzione. In definitiva, quindi, anche gli spettatori sono manipolati continuamente attraverso costrutti talvolta labirintici che hanno lo scopo di scardinare le loro certezze in modo da poter ricostruire da capo la loro percezione della realtà. Ciò accade tanto più quanto maggiormente lo spettatore è chiamato a identificarsi col protagonista del film e quanto più profonda è l’empatia che viene a crearsi col personaggio principale. Nolan è maestro in questo, tanto che in Memento altera la dimensione narrativa tradizionale per far sì che lo spettatore sperimenti e condivida la profonda frustrazione che il protagonista continuamente prova nel ricostruire il rompicapo della vicenda, raggiungendo quindi l’apice della manipolazione percettiva. In questo caso l’illusione è perfetta e la nostra percezione della realtà completamente sovvertita. Viene così a formalizzarsi una fondamentale equivalenza tra le due dimensioni: cinema e realtà coesistono nella misura in cui entrambe sono giocoforza caratterizzate da un’incontenibile perpetuazione del trucco, dell’inganno, della maschera. In definitiva: della menzogna e del falso. Come diceva De Palma: “la macchina da presa mente 24 volte al secondo”.
25 ottobre 2024 Marco Barozzi
BIBLIOGRAFIA
1. Giovanni Bogani, Peter Greenaway. Il Castoro Cinema, Roma 1995.
2. Francesco Casetti, Federico di Chio, Analisi del film. Bompiani, Milano 1980.
3. Antonio Costa, Saper vedere il cinema. Bompiani, Milano 1994.
4. Giuseppe Crivella, I misteri del giardino di Compton House. 11 novembre 2022.
5. Nadia Fusini, introduzione a La signora Dalloway, di Virginia Woolf. Feltrinelli, Milano 1993.
6. Daniele Garbin, La costruzione del tempo e dello spazio nel cinema di Christopher Nolan. Tesi di Laurea Università degli Studi di Padova, A.A. 2021-22.
7. Tullio Kezich, Il filmottanta. Mondadori, Milano 1986.
8. Geoff King, La nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era del blockbuster. Einaudi, Torino 2004.
9. Roberto Nepoti, Brian De Palma. Il Castoro Cinema, Milano 1995.
10. Quentin Tarantino, Cinema Speculation. La nave di Teseo, Milano 2023.
11. Renato Venturelli, Cinema noir americano 1960-2020. Einaudi, Torino 2020
PROGRAMMA
Ciascun film sarà preceduto da un inquadramento biografico-illustrativo a puntate e da una pagina critica.